Leggere Verga oggi: un antidoto contro le illusioni del capitalismo

Se in un precedente approfondimento abbiamo esplorato Mastro-don Gesualdo come tragedia di un uomo schiacciato dalle ambizioni, oggi vi propongo una chiave di lettura diversa: un’analisi che trasforma questo romanzo dell’Ottocento in una lente per decifrare i meccanismi del potere, dell’alienazione e delle disuguaglianze che ancora oggi strutturano le nostre società. Perché Verga, scrittore verista siciliano, non è un relitto del passato, ma un osservatore spietato della realtà, capace di insegnarci a guardare il mondo senza veli ideologici. Viviamo in un’epoca che celebra il mito del self-made man, dell’ascesa sociale attraverso il merito, dell’accumulazione come simbolo di successo. Eppure, nelle metropoli contemporanee, tra startupper che bruciano capitali e lavoratori precari intrappolati nella gig economy, risuona un’eco inquietante: quella di Gesualdo Motta, l’uomo che credeva di poter comprare la propria libertà e finì divorato dal sistema che voleva sfidare. 

La trappola della mobilità sociale: quando il capitale non basta

Immaginate una Sicilia ottocentesca in transizione: i palazzi nobiliari sgretolati, i contadini sfruttati, una borghesia affamata di terre e titoli. In questo scenario, Gesualdo Motta, muratore arricchito, incarna l’archetipo del capitalista nascente. Accumula ricchezza con ferocia: appalti, speculazioni, matrimoni calcolati. Ma Verga non lo descrive come un eroe. Al contrario, lo mostra come un prigioniero: più sale, più si scontra con un sistema di caste che non riconosce il valore del denaro senza il sangue blu. Il suo titolo ibrido, “mastro-don”, è un ossimoro che tradisce l’impossibilità di appartenere a una classe diversa da quella di origine. 

Qui, Verga anticipa una verità marxiana: **le strutture economiche forgiano le identità più delle ambizioni individuali**. Gesualdo crede di poter trascendere la sua condizione attraverso il capitale, ma scopre che il denaro, da solo, non basta a comprare il potere simbolico. La nobiltà decaduta (i Trao) disprezza i suoi soldi sporchi di lavoro; i contadini lo odiano perché li sfrutta come un padrone. È un paria in bilico tra due mondi, vittima di quella che Marx chiamerebbe **“alienazione di classe”**: non appartiene più alla plebe, ma non viene assimilato dall’élite. 

L’ideologia del merito: una menzogna vecchia due secoli

Il romanzo smaschera con cinismo l’ipocrisia del mito della mobilità sociale. Gesualdo è un lavoratore instancabile, ma per emergere deve ricorrere all’usura, alla corruzione, al matrimonio opportunistico con Bianca Trao. La sua ascesa non è una fiaba sul riscatto, ma un manuale di sopravvivenza in un sistema che premia la spietatezza. Verga, con il suo sguardo da entomologo sociale, rivela ciò che oggi i sociologi chiamano “riproduzione delle élite”: le gerarchie si rinnovano, non si abbattono.

Persino la figlia Isabella, educata nei salotti nobiliari, rinnega il padre, interiorizzando il disprezzo di classe dell’aristocrazia. È qui che il romanzo tocca un nervo scoperto del nostro presente: l’ideologia dominante si perpetua attraverso l’istruzione, la cultura, il linguaggio. Pensate alle università d’élite, ai codici linguistici delle professioni, ai matrimoni tra famiglie benestanti. La sovrastruttura, direbbe Marx, lavora silenziosamente per mantenere lo status quo.

Capitalismo e solitudine: la malattia di Gesualdo è la nostra

La parabola di Gesualdo si conclude con un’immagine potentissima: un uomo ricco, malato, circondato da parenti che sperano nella sua morte per ereditare terre e denaro. È l’emblema dell’alienazione marxiana: il capitale, anziché liberare, isola. Più Gesualdo accumula, più si trasforma in una merce lui stesso, un oggetto di cui appropriarsi.

Non vi ricorda certi ritratti della solitudine contemporanea? L’imprenditore ossessionato dal successo che perde ogni legame autentico, il manager che si identifica con il proprio conto in banca, lo smart worker ridotto a produttore di dati. Verga ci ricorda che il feticismo della merce non è un concetto astratto: è una condizione esistenziale.

Perché leggere Verga nel 2025? Per non illuderci

In un’epoca di narrazioni tossiche — dal “ce l’hai fatta perché l’hai voluto” al “la povertà è una colpa” — Mastro-don Gesualdo offre un antidoto al pensiero magico. Verga non giudica il suo protagonista: lo osserva, lo disseziona, ne mostra le contraddizioni. È questa la lezione più preziosa: il realismo come strumento di emancipazione.

Leggere Verga oggi significa imparare a riconoscere:

  1. Le trappole del determinismo economico: le scelte individuali contano, ma sono vincolate da strutture più grandi di noi.
  2. L’ipocrisia delle gerarchie simboliche: il potere non si esercita solo con il denaro, ma con il prestigio, l’istruzione, l’apparenza.
  3. L’importanza della coscienza di classe: Gesualdo fallisce perché agisce da solo, non come parte di un collettivo.

La Sicilia di Verga è lontana nel tempo, ma le sue dinamiche ci sono familiari. Nelle nostre città globali, tra grattacieli di vetro e periferie invisibili, continuano a riprodursi conflitti tra chi detiene il capitale culturale e chi possiede solo forza lavoro. La differenza è che oggi abbiamo strumenti per decifrarli — a patto di voler guardare in faccia la realtà, senza romanticismi.

Conclusione: contro l’ottimismo neoliberista

Gesualdo Motta muore solo, come muore chi crede di poter sfidare il sistema dall’interno. La sua storia non è un monito contro l’ambizione, ma contro l’illusione che il capitalismo premi il merito. Verga, con il suo pessimismo radicale, ci invita a una presa di coscienza: le vere rivoluzioni non nascono dall’ascesa individuale, ma dalla trasformazione delle strutture materiali.

In tempi di crisi climatica, disuguaglianze record e algoritmi che governano le nostre vite, abbiamo bisogno di più Verga, non di meno. Perché solo chi guarda il mondo senza illusioni può provare a cambiarlo.