Come era il mondo prima che portassi gli occhiali?
© di Maurizio Bisogno 2015
Era un mondo fatto di persone con gli occhiali: la mia insegnante di italiano alle medie aveva gli occhiali, spessi e grandi; l’insegnante delle elementari aveva gli occhiali e suo marito pure. Uno zio che mi era molto simpatico, o credevo che mi fosse simpatico, portava gli occhiali. Il fratello di mia madre portava gli occhiali. Insomma, le persone che mi circondavano, gli adulti che mi circondavano e che erano, come dire?, dei “modelli” portavano gli occhiali. Devo aver creduto che diventare adulti volesse dire portare gli occhiali. Ah, anche una mia coetanea che in quel tempo credevo mi piacesse, portava gli occhiali. Insomma, tutti portavano gli occhiali, tranne quelli che non erano ancora adulti, o che non erano interessanti. Mia madre non portava gli occhiali, e mio padre sì ma non costantemente. Occhiali, occhiali, tutti hanno gli occhiali! Anch’io voglio gli occhiali. Insomma, ad un certo punto, non avevo altro in mente, mi ero innamorato degli occhiali, volevo gli occhiali, nient’altro che occhiali, occhiali, occhiali, occhiali.
Le persone che indossavano gli occhiali erano come se fossero speciali. Inoltre una persona che portava gli occhiali non poteva essere aggredita fisicamente, cioè non si poteva fare a botte con uno così. Questo era il mondo intorno a me, un mondo fatto di persone con gli occhiali che mi apparivano come se avessero uno statuto speciale. Anche quelli che non aveva difetti di vista, se ne facevano un vezzo: portavano gli occhiali da sole. Occhiali che davano un diverso aspetto, una certa attrazione, un modo di apparire, di interessare, di attirare l’attenzione, di sentirsi speciali, con quegli occhiali scuri sul naso, o in testa, in mano…
Gli occhiali. Un’ossessione per intere generazioni.
Come vedevo io prima di portare gli occhiali? Non mi ricordo. È come se avessi sempre avuto questo difetto visivo, ma in realtà non è assolutamente vero. Infatti, la prima volta che mi recai dall’oculista mi disse che la mia vista era perfetta e che non avevo alcun bisogno di occhiali. Avevo forse tredici anni. Il fatto è che io non mi ricordo come vedevo prima degli occhiali. Vedo una bicicletta che mi fu regalata quando avevo sei o sette anni. Vedo una bambina con un vestitino estivo a fiori o rosa. Cerco di guardare, ma non oso. Siamo in per strada nel mio paese natio. E tutto quello che riesco a fare è guardarla. Allora, ti dico quello che successe. Mi ero come innamorato di questa mia coetanea, ma non sapevo cosa fosse. Sentivo solo che volevo essere dovunque ella fosse. E così lei se ne andò a casa sua dopo la vacanza estiva con noi. Visto che suo padre era medico all’ospedale e visto che conosceva era amico dell’”oculista”, così chiamavamo l’oftalmologo, cominciai a insistere che dovevo andare dall’oculista per armi fare una visita, che non ci vedevo bene. Cioè, a me non me ne fregava un fico secco di andare dall’oculista! Io volevo andare a casa di quella mia amica. Così il mio desiderio di portare gli occhiali era un travestimento di due altri desideri: diventare come i “grandi” che mi circondavano e vedere di nuovo lei. Un inganno che mi è costato caro a livello economico ma anche a livello personale. Gli occhiali non mi hanno certo favorito nella crescita, anzi mi hanno aiutato a sviluppare una certa diversità, cioè quella che mi separava dagli altri in un senso superiore e poi mi sono costati soldi e frustrazioni. In realtà, soprattutto oggi, quando mi tolgo gli occhiali mi rivelo a me stesso come il possessore di un difetto, non di un pregio. Questo io credevo nel mio desiderio di portare gli occhiali, che avrei ottenuto un diverso status, una condizione privilegiata, superiore, protetta. Gli occhiali mi avrebbero protetto dalla vita dura perché entravo direttamente nel mondo degli adulti disadattati che non facevano lavori duri. Gli occhiali appartenevano soprattutto a coloro che facevano un lavoro intellettuale o erano impiegati.
Così, adesso so che ci vedevo benissimo prima di portare gli occhiali, ma non ricordo ancora cosa vuol dire vedere bene senza occhiali, nel senso che non ricordo la differenza tra quello che nei miei ricordi vedo con gli occhiali e quello che vedo senza occhiali. Mi ricordo il volto di mia nonna Angela, quello della mia bisnonna Vincenza con cui andavamo a comprare un gelato. Non avevo gli occhiali quando giocavo nella “rupa”. Ricordo le pietre levigate dal tempo. Ricordo le porte delle case circostanti, ricordo alcuni bambini, non sempre tanto amici. Ricordo il colore sporco di certi muri. Ricordo mio zio Antonio che morì quando iniziai a portare gli occhiali. Questo ricordo si confonde con la morte del marito della mia insegnante elementare: quando andai fare visita al figlio, tre anni più grande di me, piangeva e si asciugava gli occhi sotto gli occhiali già allora abbastanza spessi. Ma io non portavo gli occhiali e mi sentii come a disagio o in colpa per questo e per il fatto che il mio papà era ancora vivo. Ancora una forma di identificazione con qualcun altro che portava gli occhiali. Come sarei potuto sfuggire di lì a poco a quel desiderio di volere anch’io gli occhiali?
I primi tempi i miei si rompevano spesso: ora la lente ora la montatura. Così un bel giorno mio padre perse la pazienza e disse che non me ne avrebbe comprati altri. Ma a quel punto mi sentii sempre peggio, nel senso che papà mi appariva come colui che voleva privarmi della cosa che amavo di più, inoltre non facevo più parte del club speciale degli occhialuti, infine iniziai a credere veramente che senza occhiali la mia vista fosse difettosa, così dopo circa un anno riuscii ad andare di nuovo dall’oculista, ma questa volta non c’era ombra di Rosalia. A quel punto avevo già una diottria e mezzo di meno, ero sulla buona strada per diventare un occhialuto permanente, la mia invalidità era diventata “seria” e papà avrebbe dovuto per forza di cose comprarmi gli occhiali, in questo poi ero sostenuto dalla mamma. All’età di quindici anni ero stato definitivamente acquisito nel fantastico club degli occhialuti. Quello che era un vero e proprio difetto visivo si trasformava in aspetto estetico attraente, così mi comprai una montatura rotonda che mi faceva assomigliare ad un politico che spese una buona parte della sua vita in carcere. E mentre la mia dipendenza da questo dispositivo cresceva di anno in anno, non mi rendevo conto del male che facevo a me stesso, alla mia identità.
Verso i diciotto anni di età mi capitò per mano un libriccino che spiegava come migliorare la vista e perfino giungere a liberarsi completamente del dispositivo visivo. Lo leggevo con sentimenti misti, un po’ ci credevo, un po’ ero scettico. Iniziai a fare alcuni esercizi, ma una forma di scoraggiamento cresceva dentro di me. Lo feci vedere ad un mio compagno di Liceo, Vito il cui padre era medico, e dopo un po’ me ne dimenticai completamente e quel libriccino scomparve dalla mia stanza né l’ho mai più ritrovato. Si trattava di una versione italiana del libro di William Bates i cui esercizi mi stanno aiutando ad usare meglio i miei occhi e mi stanno ridando l’abilità a vedere sempre meglio senza occhiali.
I problemi della vista sono una vera e propria pandemia su cui si basa un impero economico di portata mondiale. Molti di questi problemi non sono affatto risolvibili con l’uso di occhiali, al contrario l’impiego costante di questo dispositivo rende l’occhio stanco e ne peggiora la funzionalità, infatti, le lenti da usare diventano sempre più spesse col tempo se ci si affida soltanto all’uso di lenti correttive. Una vera rivoluzione in questo campo consiste nell’adottare quelle tecniche descritto nel libro Bates al fine di educare l’occhio a vedere invece di fornirgli delle stampelle.
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