Falsa coscienza e l’inferno del capitalismo
In Lavoro intellettuale e lavoro manuale, Alfred Sohn-Rethel afferma che “Senza falsa coscienza gli uomini non possono vivere da uomini nell’inferno della società capitalistica”; questo riflette la sua visione secondo cui la falsa coscienza è un meccanismo essenziale che gli individui adottano all’interno della società capitalista. Questa idea sottolinea che nell’inferno del capitalismo – segnato dall’alienazione e dallo sfruttamento inerente allo scambio di merci – la falsa coscienza permette agli individui di vivere come “uomini”, cioè come esseri umani che possono riconciliare le loro esperienze vissute con una percezione idealizzata della loro realtà.
Sohn-Rethel sostiene che la falsa coscienza non è solo un sottoprodotto accidentale, ma una funzione necessaria all’interno del capitalismo. Nasconde la dissonanza tra la realtà vissuta dell’individuo e i sistemi astratti che governano il suo lavoro e le sue relazioni sociali. Questo occultamento rende possibile agli individui di adattarsi e funzionare all’interno di un sistema che altrimenti sarebbe intollerabile se pienamente affrontato e compreso nella sua natura di sfruttamento. Così, la falsa coscienza permette alle persone di sopportare e perpetuare il sistema stesso che le sfrutta, allineando le loro esperienze soggettive con l’ideologia che il capitalismo presenta come realtà oggettiva.
Ecco alcune situazioni pratiche che illustrano il concetto di falsa coscienza secondo Alfred Sohn-Rethel e il ruolo essenziale che essa svolge nel permettere alle persone di vivere all’interno del capitalismo:
1. Consumo e felicità
Considera una persona che acquista continuamente nuovi prodotti tecnologici, come smartphone e gadget, convinta che il possesso di questi oggetti sia essenziale per la sua felicità e per la realizzazione personale. La falsa coscienza entra in gioco quando questa persona accetta la logica pubblicitaria e l’ideologia del consumismo, che presentano il consumo come una strada verso la felicità. Non si rende conto che, in realtà, è intrappolata in un ciclo di desiderio insoddisfatto che perpetua il sistema capitalistico e distoglie l’attenzione dalla ricerca di significati più profondi.
2. Lavoro alienante e percezione del successo
Immagina un impiegato che lavora molte ore al giorno in un lavoro ripetitivo e privo di significato personale, come l’inserimento dati in un’azienda. Sebbene il lavoro sia monotono e alienante, l’impiegato crede che questo sacrificio lo avvicini al “successo” e al “benessere” promesso dalla società capitalista. Qui, la falsa coscienza si manifesta nel modo in cui l’impiegato accetta la narrazione secondo cui il duro lavoro porterà a una vita migliore, senza mettere in discussione il fatto che il sistema stesso lo sta sfruttando e privando la sua vita di vero significato.
3. Gig Economy e illusione della libertà
Un lavoratore della gig economy, come un autista di ridesharing o un corriere, può credere di essere “il capo di se stesso” perché può scegliere quando e quanto lavorare. Questa percezione è una forma di falsa coscienza, poiché la sua libertà è solo apparente: in realtà, egli è vincolato dalle esigenze e dai ritmi della piattaforma per cui lavora. Crede di essere indipendente, ma non si accorge che la sua precarietà lavorativa e l’assenza di diritti e tutele sono conseguenze dirette del sistema capitalistico che lo sfrutta.
4. Illusione del “sogno americano”
Nel contesto statunitense, molti credono fermamente nel “sogno americano,” l’idea che con il duro lavoro chiunque possa diventare ricco e di successo. Questa credenza, radicata nella falsa coscienza, porta le persone a giustificare le disuguaglianze economiche come il risultato del merito o della mancanza di impegno, piuttosto che interrogarsi sulle strutture sistemiche che impediscono la mobilità sociale. Di conseguenza, accettano passivamente il sistema, illudendosi che possano “sfondare” e avere successo.
5. Percezione del lavoro come autorealizzazione
Molti professionisti si identificano completamente con il proprio lavoro, al punto da vedere se stessi come “insegnanti”, “medici” o “avvocati” prima ancora che come persone. Questo senso di identità è rafforzato dalla falsa coscienza, che li porta a vedere la loro autorealizzazione nel lavoro, anche se esso può essere fonte di stress, sfruttamento e alienazione. Accettano l’idea che il lavoro sia essenziale per definire chi sono, ignorando la possibilità di una vita al di fuori del ruolo che occupano nella società capitalista.
6. Internalizzazione della meritocrazia aziendale
In molte aziende, i dipendenti sono spinti a competere tra loro per promozioni, bonus e premi, credendo che il sistema sia meritocratico e che chi lavora di più ottenga di più. Questa fede nella meritocrazia aziendale è un esempio di falsa coscienza: ignora il fatto che il sistema è progettato per sfruttare la forza lavoro, promuovendo solo una minoranza per mantenere la motivazione generale. Così, i dipendenti continuano a operare all’interno di un sistema che li usa senza mettere in discussione la struttura di potere sottostante.
In ognuno di questi esempi, la falsa coscienza opera per nascondere la dissonanza tra la realtà sfruttatrice del capitalismo e la percezione soggettiva dell’individuo. Questo permette alle persone di adattarsi e persino di accettare il sistema capitalistico, perpetuando una struttura sociale che in ultima analisi aliena e sfrutta, ma che viene percepita come giusta, naturale e inevitabile.
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